Ho visto in anteprima Good American Family, la nuova miniserie con Ellen Pompeo tratta da un'assurda storia realmente accaduta
La trovate su Disney+: otto episodi per raccontare la storia di Natalia Grace, accusata di aver finto di essere una bambina, ma che parla soprattutto di verità Vs. narrazione e vuoti affettivi
Good American Family, uscito in Italia su Disney+ proprio oggi, 9 aprile 2025, con i primi cinque episodi su un totale di otto (i rimanenti tre saranno disponibili uno a settimana ogni mercoledì), rappresenta un caso insolito.
Potremmo dire che è la prima volta che seguiamo una serie tv facendo un “confronto” (per favore, notate le virgolette) tra il ruolo con cui abbiamo conosciuto la protagonista in passato e quello qui interpretato. Ok, mi spiego meglio.
Interprete principale della serie è Ellen Pompeo: sì, la Meredith Grey di Grey’s Aanatomy che, dopo aver lasciato -parzialmente- il medical drama, ha deciso di buttarsi su altri progetti. Così, mentre la sua Dott.sa Grey continua a cicciare fuori qua e là nel corso della serie, lei ha avuto più tempo per rischiare su altro. Ecco com’è nata la sua partecipazione a Good American Family.
Ma il rischio dove sta? Beh, ho visto in anteprima tutti e otto gli episodi della miniserie, tratta da una storia realmente accaduta e che ha spaccato l’opinione pubblica americana, e devo dire che Kristine Barnett, interpretata da Pompeo, è molto lontana da Meredith Grey. Un punto in comune, però, ce l’hanno: entrambe sono testarde, anche se trasformano questo lato del carattere in modo differente.
Di cosa parla Good American Family?
Una storia realmente accaduta, dicevamo. In effetti, Good American Family (con le libertà narrative del caso) racconta la vicenda di Natalia Grace (qui interpretata da Imogen Faith Reid), bambina orfana, affetta da nanismo e di origini ucraine di sette anni che, nel 2010, dopo essere stata rifiutata da una famiglia viene accolta in casa da Kristine e Michael Barnett (Mark Duplass). La coppia ha già tra figli, tra cui uno affetto da autismo e per cui Kristine ha creato un’associazione per aiutare i bambini come lui: questo la rende una piccola celebrità, chiamata dalle televisioni e dagli editori. Il dolore per un’adozione non andata in porto spinge entrambi a riprovarci, proprio con Natalia.
Tutto bene? Non proprio: Natalia comincia a mostrare verso la sua nuova famiglia un atteggiamento ostile, con comportamenti che preoccupano Kristine e Michael, decisi però a fare di tutto purché si integri. Eppure, Kristine inizia a notare qualcosa di sospetto in Natalia, alcuni dettagli relativi all’età che dichiara. Documenti ufficiali non chiari e particolarità anatomiche che non apparterrebbero a una bambina di sette anni le fanno sorgere il dubbio: e se Natalia fosse più grande di quello che dice di essere?
I Barnett iniziano a temere di essersi portati in casa una truffatrice nonché una sociopatica e si sentono in pericolo: la loro paura sfocia con la richiesta, poi accolta, di cambiare all’anagrafe l’anno di nascita di Natalia. Non più 2003, ma 1989: secondo loro, quindi, non ha sette anni, ma ventidue. Un’adulta, tanto da prenderla una casa tutta per sé e costringerla a vivere lì. Per loro la vicenda sembra conclusa, ma Natalia riuscirà a portare in tribunale il suo caso e a chiedere che le sia ripristinato il 2003 come anno di nascita. Se la sua richiesta dovesse essere accolta, Michael e Kristine finirebbero per essere accusati di abbandono di minore: avrebbero infatti costretto una bambina -tra l’altra con necessità particolare, vista la sua condizione- a vivere da sola.
Una miniserie che si spacca in due
Creata da Katie Robbins (già dietro The Affair e Sunny), Good American Family ha la potenza di una storia particolare che parla all’universale. Per quanto strana ed effettivamente unica nel suo genere sia la vicenda di Natalia Grace, la miniserie rivela, episodio dopo episodio, una chiave di lettura più ampia, rivolta al sistema sanitario americano e alla gestione di situazioni delicate come questa: un sistema che zoppica e che, complice una visione un po’ opaca delle cose, segue un iter non chiarissimo, anche frettoloso, per cambiare età a Natalia.
E poi ci sono i Barnett, che non escono benissimo dalla rappresentazione di questa miniserie. Se Michael viene rappresentato come la parte più sensibile della coppia, restìa a vedere la possibile truffa messa in atto da Natalia, è Kristine il vero motore di ogni azione della famiglia. Determinata, tenace, abituata ad avere sempre ragione: è lei che si convince che Natalia stia mentendo alla sua famiglia e che convince Michael a seguirla nel suo percorso contro di lei.
La miniserie, però, subisce un rapido cambio di tono a metà percorso: i primi quattro episodi raccontano infatti l’ingresso di Natalia nella famiglia Barnett e il suo presunto atteggiamento malvagio contro Kristine e i suoi figli. Dal quinto in poi, la sceneggiatura mostra una Natalia differente, in estrema difficoltà, sola, abbandonata al proprio dolore fisico ed emotivo e in una casa di cui non riesce a occuparsi, il che la porta rapidamente a vivere nel degrado. Ed ecco che non ci si può non domandare: ma allora chi è veramente Natalia, l’adulta malefica adottata dai Barnett o la bambina con un handicap incompresa dai genitori adottivi e abbandonata a se stessa?
Una serie, due toni
Il tono della serie cambia: non vi nascondo di essere stato un po’ preso dalla noia nei primi episodi, troppo didascalici, con dialoghi poco accattivanti e più vicini a uno di quel film-tv trash del ciclo “Nel segno del giallo” su Raidue che alla miniserie Hulu.
Le cose migliorano nella seconda parte, quando prende spazio la vicenda di “Natalia abbandonata”, con momenti difficili da digerire, considerato il dubbio persistente che quanto accaduto possa riguardare non un’adulta ma una bambina. Il dubbio, in questo caso, s’insinua in noi spettatori grazie anche alla brava Imogen Faith Reid, capace a dare a Natalia, tramite la propria voce e alle proprie espressioni, le sembianze prima della bambina, poi della giovane donna e viceversa.
Chi è davvero Natalia? La serie fornisce una risposta, seguendo le vicende processuali realmente accadute fino a poco prima l’inizio delle riprese, senza lasciare dubbi al pubblico. Il dubbio, e questo a mio dire è la parte più interessante di questa serie, riesce a spostarsi da Natalia a Kristine: a fine serie non vi chiederete più se era la prima a mentire, ma se è stata la seconda ad aver orchestrato tutto pur di liberarsi della bambina appena adottata.
Il vuoto affettivo raccontato in Good American Family
Cosa rimane a fine visione? Oltre ad aver scoperto un’incredibile storia realmente accaduto, Good American Family ci ricorda due cose. La prima, che si evince dal titolo, è l’importanza di una buona narrazione, a prescindere dal fatto che si voglia rivelare o nascondere la verità.
I Barnett vogliono e devono essere rappresentati come la tipica “brava famiglia americana” se vogliono ottenere ragione nel processo in cui sono coinvolti. Non conta più la verità, quindi, ma come ci si racconta. Lo storytelling (come direbbero quelli bravi) prevale sui fatti: inquietante, ma assolutamente e tristemente vero. Che poi sia sempre la strategia vincente, è un’altra questione.
Infine, e qui concludo (e vi ringrazio per essere arrivati fino in fondo) un aspetto di questa serie mi è rimasto addosso fin dal primo episodio: la sensazione di vuoto affettivo che viene raccontato da entrambi i punti di vista, dei Barnett e di Natalia.
I Barnett vogliono colmare il vuoto di una figlia che non hanno e di un’adozione andata male; Natalia ha il vuoto di una famiglia tutta per sé. Michael Barnett confida a Natalia che prima di incontrare Kristine non sapeva cosa volesse dire essere amato; Natalia nasconde più volte il desiderio di fare parte di una famiglia colta dal terrore che questo desiderio possa causarle problemi.
Good American Family, raccontando questa assurda vicenda, svela il grande vuoto che affligge noi tutti, oggi: la solitudine, la necessità di sentirsi speciali per qualcuno, la mancanza di un “ti voglio bene”. Kristine e Natalia, pur in modi estremamente differenti, sono entrambe alla ricerca della stessa cosa: un posto nel proprio mondo, un caldo abbraccio per sentirsi finalmente a casa.